Dopo il concilio Paolo VI scrisse al generale Franco per rivedere i rapporti tra la Santa Sede e la Spagna
A Dio quello che è di Dio
di VICENTE CÁRCEL ORTÍ
Monsignor Giovanni Battista Montini aveva seguito dalla Segreteria di Stato i negoziati ufficiali per il concordato del 1953 con la Spagna; un concordato insostenibile dopo il Vaticano II. Perciò due anni e mezzo dopo la chiusura del concilio, per iniziativa di Paolo VI, furono avviate le pratiche per una revisione profonda del testo concordatario.
Il primo gesto lo compì il Papa stesso quando, il 28 aprile 1968, chiese per iscritto al generale Franco di rinunciare al privilegio di presentare i vescovi prima della possibile revisione del Concordato, lasciando alla Santa Sede libertà per tali nomine, senza osservare i vincoli fino ad allora esistenti. Il Vaticano, per il momento, voleva solo ottenere la rinuncia al privilegio di presentazione; il governo invece pretendeva negoziati globali per un nuovo Concordato.
Nella sua lettera Paolo VI ricordava l'appello del concilio ai governi affinché rinunciassero ai loro privilegi in materia di nomina dei vescovi. I privilegi che la Spagna legittimamente possedeva le erano stati concessi per i suoi grandi meriti religiosi, ma non rispondevano più né allo spirito né alle esigenze dei tempi. Il Papa, convinto d'interpretare i veri interessi della Spagna, non meno di quelli della Chiesa cattolica, proponeva al Capo di Stato e al governo spagnolo di rinunciare a tali privilegi prima della possibile revisione del Concordato, e assicurava che la Santa Sede, nel nominare i vescovi, non avrebbe avuto altro fine se non quello di una sempre più grande prosperità religiosa e spirituale della nazione. In ogni caso, il Papa s'impegnava a notificare previamente e in modo riservato al Capo di Stato o al governo il nome della persona designata per l'incarico di vescovo residenziale, al fine di sapere se avevano da fare nei suoi riguardi precise obiezioni di carattere politico generale. Concludeva testimoniando al Capo di Stato la dovuta stima per la grande opera che aveva portato a termine a favore della prosperità materiale e morale della nazione spagnola.
Questa lettera fu consegnata personalmente a Franco dal nunzio Luigi Dadaglio sabato 4 maggio alle 11 di mattina nella residenza del Pardo. Franco non si aspettava la sua visita e ne ignorava il motivo. "Quello che mi viene chiesto è sommamente grave - disse -. Come Capo di Stato, in coscienza, ho il dovere di garantire la pace spirituale e il benessere del Paese". Franco disse al nunzio che il Vaticano non conosceva la Spagna, non capiva la Spagna e che "maltrattava la Spagna". Poi aggiunse: "Gli avversari del governo sono ben accolti e sono in contatto con il Vaticano, mentre a Madrid cercano di influenzare i nunzi non appena giungono nel Paese".
Franco si chiese perché la Spagna doveva essere la prima nazione a rinunciare al privilegio secolare della nomina dei vescovi. La conversazione intercorsa fra lui e il nunzio fu difficile e polemica; durò mezz'ora e il generale si mantenne sempre sulla difensiva, affermando che se lo Stato aveva ricevuto questo privilegio dalla Chiesa, molto di più aveva dato lui alla Chiesa; deplorò le trasmissioni di Radio Vaticana con atteggiamento ostile nei confronti della Spagna e il fatto che molti sacerdoti fossero fautori di disordini. Il 12 giugno 1968 Franco rispose a Paolo VI dicendogli che la sua lettera aveva meritato da parte sua la più filiale accoglienza e accurata riflessione; e che il fatto di aver ribadito l'appello del Vaticano II aveva trovato un'eco immediata nel suo animo di fedele figlio della Chiesa, senza fargli però dimenticare gli imperativi di ordine legale e politico che riguardavano il suo dovere e la sua responsabilità di governante. Ricordava che l'antico diritto di presentazione era stato modificato nella sua essenza nel 1941, divenendo un vero sistema di negoziazione, incorporato poi al concordato del 1953, in un quadro giuridico che stabiliva diritti e doveri reciproci; e che tale sistema si era mostrato compatibile con la libertà della Chiesa. D'altro canto, essendo tale procedimento parte fondamentale di un patto solenne fra la Santa Sede e lo Stato spagnolo, qualsiasi sua modifica necessitava, oltre all'approvazione del governo, l'intervento delle Cortes. Quanto all'opinione pubblica, Franco affermava che non avrebbe approvato una rinuncia unilaterale se, nello stesso tempo, non fossero stati risolti altri punti che, seguendo gli orientamenti della Gaudium et spes, potevano costituire un impedimento per la testimonianza cristiana che la sensibilità del mondo in quel tempo esigeva. Comunicava che era disposto a giungere a una revisione di tutti i privilegi di entrambe le parti nello spirito della costituzione conciliare e in sintonia con la dichiarazione dell'episcopato spagnolo a tale riguardo.
Il generale concludeva ringraziando per le parole dedicate da Sua Santità all'opera realizzata dai suoi governi dal giorno in cui lui dovette ricorrere alle armi, come risorsa ultima per arrestare la dissoluzione stessa della società civile e per "difendere e restaurare i diritti e l'onore di Dio e della Religione", secondo le parole di Pio XI.
Seguirono sei anni di silenzio totale su questo tema e di difficoltà sempre più grandi da parte del governo nella nomina dei vescovi. Alcune diocesi importanti restarono vacanti per molti anni. Ad esempio quella di Valencia restò vacante per quasi tre anni, dal novembre 1966 (con la rinuncia di Marcelino Olaechea) a settembre 1969 (con l'arrivo del servo di Dio José María García Lahiguera).
Il 29 dicembre 1972 Franco scrisse nuovamente a Paolo VI una lunga lettera confidandogli alcune gravi preoccupazioni che riguardavano la situazione spirituale del popolo spagnolo e le relazioni fra la Chiesa e lo Stato, e gli chiese che dalla gerarchia della Chiesa ci si opponesse con mezzi efficaci ad alcuni ecclesiastici e a certe organizzazioni, che si definivano apostoliche, ma che in realtà facevano della Chiesa uno strumento di azione politica.
Il Capo di Stato denunciava anche "certe indubbie ingerenze della Conferenza episcopale, perché è una realtà che alcuni dei suoi membri sentono oggi l'irreprimibile tentazione di dedicare la propria attività a materie che non competono loro e delle quali generalmente hanno una conoscenza solo superficiale, senza che, a mio parere, ne derivi un beneficio per le anime, anzi al contrario, ciò va a detrimento dell'auspicata concordia nelle relazioni della gerarchia con il governo. All'opposto, l'atteggiamento dello Stato spagnolo rispetto alla Chiesa non può essere più corretto né più chiaro; ma lo Stato non può difendere la Chiesa dalle sue divisioni interne, oggi tanto marcate. Mi rendo conto, Santissimo Padre, che i problemi come quelli che riferisco, e dei quali Sua Santità forse non è pienamente a conoscenza, possono affliggere dolorosamente il Suo cuore. Anch'io devo spesso contenere la mia amarezza di fronte alle dimostrazioni d'ingratitudine da parte di ecclesiastici di diverse categorie, malgrado i servizi prestati alla Chiesa dai Governi spagnoli". Questa lettera fu consegnata personalmente al Papa dal ministro degli affari esteri, Gregorio López Bravo, il 12 gennaio 1973, insieme ad altri numerosi documenti. La risposta del Pontefice però arrivò solo sei mesi dopo, il 31 luglio 1973.
In tale risposta Paolo VI disse che nel 1972, in occasione della visita ad limina, aveva ricevuto molti vescovi spagnoli e aveva esaminato i resoconti sullo stato delle loro rispettive diocesi, ascoltandoli e ponendo loro domande. "Abbiamo potuto constatare - disse - lo sforzo generoso che l'Episcopato spagnolo sta compiendo nel rinnovamento, per dare una risposta adeguata ai problemi pastorali posti dai profondi cambiamenti della società, secondo le caratteristiche del Paese".
Paolo VI desiderava che, in sintonia con i principi del concilio, la Chiesa potesse cooperare con lo Stato al bene comune del popolo spagnolo e assicurò che la Santa Sede non avrebbe interferito, da parte sua, nella sovranità e nell'autonomia dello Stato. Ma la preoccupazione più urgente in quel momento per il Papa era quella delle diocesi ancora vacanti. Questa situazione però si risolse definitivamente solo nel luglio del 1976, quando il re Juan Carlos I rinunciò definitivamente al privilegio di intervenire nelle nomine dei vescovi.
Il primo gesto lo compì il Papa stesso quando, il 28 aprile 1968, chiese per iscritto al generale Franco di rinunciare al privilegio di presentare i vescovi prima della possibile revisione del Concordato, lasciando alla Santa Sede libertà per tali nomine, senza osservare i vincoli fino ad allora esistenti. Il Vaticano, per il momento, voleva solo ottenere la rinuncia al privilegio di presentazione; il governo invece pretendeva negoziati globali per un nuovo Concordato.
Nella sua lettera Paolo VI ricordava l'appello del concilio ai governi affinché rinunciassero ai loro privilegi in materia di nomina dei vescovi. I privilegi che la Spagna legittimamente possedeva le erano stati concessi per i suoi grandi meriti religiosi, ma non rispondevano più né allo spirito né alle esigenze dei tempi. Il Papa, convinto d'interpretare i veri interessi della Spagna, non meno di quelli della Chiesa cattolica, proponeva al Capo di Stato e al governo spagnolo di rinunciare a tali privilegi prima della possibile revisione del Concordato, e assicurava che la Santa Sede, nel nominare i vescovi, non avrebbe avuto altro fine se non quello di una sempre più grande prosperità religiosa e spirituale della nazione. In ogni caso, il Papa s'impegnava a notificare previamente e in modo riservato al Capo di Stato o al governo il nome della persona designata per l'incarico di vescovo residenziale, al fine di sapere se avevano da fare nei suoi riguardi precise obiezioni di carattere politico generale. Concludeva testimoniando al Capo di Stato la dovuta stima per la grande opera che aveva portato a termine a favore della prosperità materiale e morale della nazione spagnola.
Questa lettera fu consegnata personalmente a Franco dal nunzio Luigi Dadaglio sabato 4 maggio alle 11 di mattina nella residenza del Pardo. Franco non si aspettava la sua visita e ne ignorava il motivo. "Quello che mi viene chiesto è sommamente grave - disse -. Come Capo di Stato, in coscienza, ho il dovere di garantire la pace spirituale e il benessere del Paese". Franco disse al nunzio che il Vaticano non conosceva la Spagna, non capiva la Spagna e che "maltrattava la Spagna". Poi aggiunse: "Gli avversari del governo sono ben accolti e sono in contatto con il Vaticano, mentre a Madrid cercano di influenzare i nunzi non appena giungono nel Paese".
Franco si chiese perché la Spagna doveva essere la prima nazione a rinunciare al privilegio secolare della nomina dei vescovi. La conversazione intercorsa fra lui e il nunzio fu difficile e polemica; durò mezz'ora e il generale si mantenne sempre sulla difensiva, affermando che se lo Stato aveva ricevuto questo privilegio dalla Chiesa, molto di più aveva dato lui alla Chiesa; deplorò le trasmissioni di Radio Vaticana con atteggiamento ostile nei confronti della Spagna e il fatto che molti sacerdoti fossero fautori di disordini. Il 12 giugno 1968 Franco rispose a Paolo VI dicendogli che la sua lettera aveva meritato da parte sua la più filiale accoglienza e accurata riflessione; e che il fatto di aver ribadito l'appello del Vaticano II aveva trovato un'eco immediata nel suo animo di fedele figlio della Chiesa, senza fargli però dimenticare gli imperativi di ordine legale e politico che riguardavano il suo dovere e la sua responsabilità di governante. Ricordava che l'antico diritto di presentazione era stato modificato nella sua essenza nel 1941, divenendo un vero sistema di negoziazione, incorporato poi al concordato del 1953, in un quadro giuridico che stabiliva diritti e doveri reciproci; e che tale sistema si era mostrato compatibile con la libertà della Chiesa. D'altro canto, essendo tale procedimento parte fondamentale di un patto solenne fra la Santa Sede e lo Stato spagnolo, qualsiasi sua modifica necessitava, oltre all'approvazione del governo, l'intervento delle Cortes. Quanto all'opinione pubblica, Franco affermava che non avrebbe approvato una rinuncia unilaterale se, nello stesso tempo, non fossero stati risolti altri punti che, seguendo gli orientamenti della Gaudium et spes, potevano costituire un impedimento per la testimonianza cristiana che la sensibilità del mondo in quel tempo esigeva. Comunicava che era disposto a giungere a una revisione di tutti i privilegi di entrambe le parti nello spirito della costituzione conciliare e in sintonia con la dichiarazione dell'episcopato spagnolo a tale riguardo.
Il generale concludeva ringraziando per le parole dedicate da Sua Santità all'opera realizzata dai suoi governi dal giorno in cui lui dovette ricorrere alle armi, come risorsa ultima per arrestare la dissoluzione stessa della società civile e per "difendere e restaurare i diritti e l'onore di Dio e della Religione", secondo le parole di Pio XI.
Seguirono sei anni di silenzio totale su questo tema e di difficoltà sempre più grandi da parte del governo nella nomina dei vescovi. Alcune diocesi importanti restarono vacanti per molti anni. Ad esempio quella di Valencia restò vacante per quasi tre anni, dal novembre 1966 (con la rinuncia di Marcelino Olaechea) a settembre 1969 (con l'arrivo del servo di Dio José María García Lahiguera).
Il 29 dicembre 1972 Franco scrisse nuovamente a Paolo VI una lunga lettera confidandogli alcune gravi preoccupazioni che riguardavano la situazione spirituale del popolo spagnolo e le relazioni fra la Chiesa e lo Stato, e gli chiese che dalla gerarchia della Chiesa ci si opponesse con mezzi efficaci ad alcuni ecclesiastici e a certe organizzazioni, che si definivano apostoliche, ma che in realtà facevano della Chiesa uno strumento di azione politica.
Il Capo di Stato denunciava anche "certe indubbie ingerenze della Conferenza episcopale, perché è una realtà che alcuni dei suoi membri sentono oggi l'irreprimibile tentazione di dedicare la propria attività a materie che non competono loro e delle quali generalmente hanno una conoscenza solo superficiale, senza che, a mio parere, ne derivi un beneficio per le anime, anzi al contrario, ciò va a detrimento dell'auspicata concordia nelle relazioni della gerarchia con il governo. All'opposto, l'atteggiamento dello Stato spagnolo rispetto alla Chiesa non può essere più corretto né più chiaro; ma lo Stato non può difendere la Chiesa dalle sue divisioni interne, oggi tanto marcate. Mi rendo conto, Santissimo Padre, che i problemi come quelli che riferisco, e dei quali Sua Santità forse non è pienamente a conoscenza, possono affliggere dolorosamente il Suo cuore. Anch'io devo spesso contenere la mia amarezza di fronte alle dimostrazioni d'ingratitudine da parte di ecclesiastici di diverse categorie, malgrado i servizi prestati alla Chiesa dai Governi spagnoli". Questa lettera fu consegnata personalmente al Papa dal ministro degli affari esteri, Gregorio López Bravo, il 12 gennaio 1973, insieme ad altri numerosi documenti. La risposta del Pontefice però arrivò solo sei mesi dopo, il 31 luglio 1973.
In tale risposta Paolo VI disse che nel 1972, in occasione della visita ad limina, aveva ricevuto molti vescovi spagnoli e aveva esaminato i resoconti sullo stato delle loro rispettive diocesi, ascoltandoli e ponendo loro domande. "Abbiamo potuto constatare - disse - lo sforzo generoso che l'Episcopato spagnolo sta compiendo nel rinnovamento, per dare una risposta adeguata ai problemi pastorali posti dai profondi cambiamenti della società, secondo le caratteristiche del Paese".
Paolo VI desiderava che, in sintonia con i principi del concilio, la Chiesa potesse cooperare con lo Stato al bene comune del popolo spagnolo e assicurò che la Santa Sede non avrebbe interferito, da parte sua, nella sovranità e nell'autonomia dello Stato. Ma la preoccupazione più urgente in quel momento per il Papa era quella delle diocesi ancora vacanti. Questa situazione però si risolse definitivamente solo nel luglio del 1976, quando il re Juan Carlos I rinunciò definitivamente al privilegio di intervenire nelle nomine dei vescovi.
(©L'Osservatore Romano 9 novembre 2011)
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